C’è vita oltre la Formula 1? È questo il dilemma che da sempre attanaglia i piloti dopo qualche anno di permanenza in scuderie mediocri, specie quando l’età non è più dalla loro parte. Vale la pena restare in F1, anziché guardare altrove, vagliando l’ipotesi di gareggiare in altri campionati? La risposta è a discrezione del singolo. Chi ha trovato fortuna altrove, come Jean-Eric Vergne, defenestrato dalla Toro Rosso in giovane età e successivamente diventato due volte campione del mondo di Formula E, dice che non tornerebbe indietro. Comprensibile: dopo aver accarezzato di nuovo – e ripetutamente – l’ebrezza del podio, riesce difficile pensare di potersi riaccomodare nelle propaggini meno nobili dello schieramento di F1.

D’altro canto, molti piloti si accontentano di partecipare in Formula 1. Categoria estremamente elitaria, in cui pochi riescono ad approdare e pochissimi lasciano un segno tangibile. Il prestigio legato all’essere un pilota di F1 è ricompensa assai succosa per molti. E non hanno intenzione di rinunciarvi, anche se potrebbero trovare nuova linfa in un’altra categoria. In questa fattispecie rientrava anche Romain Grosjean, che, dopo i podi con l’allora Lotus, nell’ultima parte di carriera in F1 con la Haas non ha lasciato il segno.  

Il caso di Grosjean è emblematico. Romain, nel weekend, ha colto la prima pole position e il primo podio in IndyCar, brandendo il trofeo con la stessa mano martoriata che, in Bahrain, gli aveva consentito di aggrappparsi alla vita, conducendolo fuori dall’inferno di fuoco e fiamme in cui si era ritrovato. Scrivendo di motorsport, capita di dover raccontare pagine buie, intrise del dolore e dell’ansia di chi è coinvolto, e storie di redenzione, di nuovi inizi. Romain ha unito idealmente le due facce delle corse in una sola medaglia, fatta di forza d’animo e di serenità.

Romain, di recente, ha raccontato di aver elaborato il trauma del suo incidente con il suo psicologo, in modo tale da accettare quello che è stato e andare avanti. La mano di Romain, con le sue profonde cicatrici, sembra quasi una ceramica trattata con la tecnica giapponese del kintsugi. Rotta e poi ricomposta con il metallo liquido. Cambiata per sempre, come la sua visione della vita. Ogni giorno, pur con le sue difficoltà, per Romain è un bonus non scontato. E Grosjean non se lo dimentica, accettando con positività le grane che ancora accusa per via delle ustioni alle mani.

Guai che non gli hanno impedito di tornare in pista, arrivando ben presto vicino alla vittoria. L’uomo che è uscito dal fuoco è riuscito a reinventare se stesso, dimostrando di avere ancora, dentro di sé, quello che gli serve per lasciare il segno. In F1 Romain ha faticato, strozzato dalla sua propensione alla lamentela e, a volte, anche agli errori. In IndyCar potrebbe aver trovato una dimensione a lui più congeniale, che sembra galvanizzarlo. O, più semplicemente, l’incidente gli ha fatto paradossalmente ritrovare il gusto per il suo lavoro. Pur con le inevitabili limitazioni che conseguono dallo schianto.

Il percorso di Grosjean, a conti fatti, ci dimostra che c’è davvero vita al di là della Formula 1. Che incaponirsi nel restare nella massima serie non è sempre la direzione migliore da intraprendere. Anzi. Romain si sarebbe dovuto reinventare anche senza l’incidente, perché il suo addio alla Haas, e di conseguenza, anche alla F1, si era consumato ben prima dello schianto a Sakhir. Ma la sua parabola, così struggente e pubblica, illustra perfettamente l’assunto già dimostrato da altri prima di lui. Il motorsport è un universo caleidoscopico, tentacolare. E non si vive di sola F1.

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